Anfiteatro Campano
L’anfiteatro campano è il fulcro del percorso di visita. Il monumento, che per importanza e dimensioni è secondo solo al Colosseo, è incluso in uno spazio verde in cui sono armonicamente inserite altre testimonianze della città romana: l’anfiteatro repubblicano, primo anfiteatro romano in muratura; l’edificio ottagonale di età imperiale, e il portico ellittico che circondava l’anfiteatro imperiale. L’anfiteatro campano, edificato in età flavia su modello del Colosseo tra lo scorcio del I sec. d.C. e il II sec. d.C., venne restaurato e decorato con colonne e statue da Adriano, ed inaugurato da Antonino Pio, come recita l’iscrizione rinvenuta da Alessio Simmaco Mazzocchi nel 1726. La grandiosa macchina per gli spettacoli, in grado di ospitare sino a 60.000 spettatori, dotata di ampi sotterranei per inscenare sontuosi spettacoli, sostituisce l’arena antica (130-90 a.C.), nota anche per la rivolta di Spartaco del 73 a.C., completamente demolita sul finire del I sec. d.C. La costruzione dei due anfiteatri in un’area già occupata da una vasta necropoli si connette significativamente all’origine dei combattimenti gladiatorii, i giochi funebri che si celebravano in onore di personaggi illustri e, a volerne suggerirne la relazione, è una tomba ricomposta nello spazio tra le due arene. L’area era appena fuori dalle mura della città, strettamente connessa alla via Appia, costruita nel 313 a.C. da Appio Claudio Cieco con il contributo dell’aristocrazia capuana per collegare Roma e Capua, strette da tempo da interessi e vincoli di amicitia. La relazione è ancora percepibile nell’attuale sistema urbano di Santa Maria Capua Vetere, dove la via principale, ricalcando la Regina Viarium, si infila nei fornici dell’Arco di Adriano, che annuncia l’ingresso occidentale della città romana. L’edificio, benché a rudere, lascia ancora immaginare l’imponenza delle sue antiche forme. Resta l’antico piazzale lastricato delimitato da pilastri attraverso i quali ancora affluisce il pubblico. L’ingresso, oggi, è segnato dall’unico dei pilastri decorati, su cui sono raffigurati Ercole e Silvano. Restano le arcate del portico, costruite con la forte pietra del monte Tifata, incorniciate da semicolonne dorico – tuscaniche; poco rimane degli altri tre livelli che si innalzavano fino a una altezza di circa 44 metri. Il monumento culminava con un piano in opera laterizia, elegantemente ritmato da finestre e lesene e sormontato da un cornicione lungo il quale grosse mensole reggevano i pali del velario che riparava gli spettatori. Simboli dell’anfiteatro sono i busti delle divinità che si affacciavano dalle chiavi d’arco del primo portico. Gli déi di Capua guidavano verso i settori della cavea, svolgendo la funzione che altrove era affidata alla numerazione, rendendolo unico nel genere. Particolarmente emozionante è la vista delle due sole arcate che ancora conservano le immagini di Diana e Giunone, ed è ancora più suggestivo passare sotto il loro “sguardo” e dirigersi verso gli ambulacri. I pochi esemplari del pantheon capuano visibili nell’area sono Mercurio, Minerva, Apollo, e Mitra, nel Museo dei Gladiatori e un busto virile lungo il portico. La maggior parte degli 80 busti sono dispersi, portati via in età medievale, alcuni di questi riutilizzati come spolia per dare pregio agli edifici della nuova Capua, rimarcando una continuità con la città antica. Oltre i due portici esterni, sostenuti da poderosi pilastri in laterizio, si penetra negli ambulacri, in origine decorati con stucchi e marmi. Da qui, attraverso un preciso sistema di scale, in parte ancora visibili, gli spettatori raggiungevano i posti assegnati nella cavea che, divisa in 5 settori orizzontali (maeniana), riproduceva le classi sociali, e distribuiva il pubblico secondo un ordine gerarchico: i posti più vicini all’arena, i più prestigiosi, erano riservati alla classe senatoria, i successivi gradini del primo meniano, ai cavalieri, quindi gli altri membri della società fino ai posti più alti, che Augusto destinò alle donne. La cavea era splendidamente decorata in marmo: circondata da un podio, sormontata da una porticus con colonne e statue; anche gli accessi alle gradinate (vomitoria) erano ornati con bassorilievi - esposti nel Museo dei Gladiatori - che narrano miti, rimandano a combattimenti con belve (venationes), a fasi costruttive o a celebrazioni che si svolgevano nell’anfiteatro. Gli accessi principali all’arena sono sull’asse maggiore, la Porta Triumphalis o Iovia, da cui muoveva il corteo che annunciava l’inizio dei giochi, e dalla parte opposta la Porta Libitina, si allontanavano gli sconfitti. Altri due accessi sono sull’asse inferiore. Attraverso botole e lunghe aperture, l’arena si connetteva ai sotterranei (carceres): un labirinto di corridoi con un perfetto sistema di canalizzazione delle acque, e nicchie che corrono lungo tutto il muro perimetrale che sbalordisce il visitatore. Uno spazio sorprendente e ben conservato che fa comprendere la complessità della macchina scenica, con suoi apparati di sollevamento - argani, gabbie - che stupiva gli spettatori con improvvise comparse di belve e scenografie. Percorrere questi spazi è come visitare un museo sotterraneo, osservando frammenti di colonne, capitelli e cornici di marmo tra le sublimi ruine, immaginando lo splendore perduto. Considerevole è, infatti, la perdita delle statue marmoree, di cui rimangono i pregevoli esemplari di Venere, Psyche, Adone al Museo archeologico Nazionale di Napoli e la Nike ora nel Museo archeologico dell’antica Capua. La funzione dell’anfiteatro mutò con l’abolizione dei munera gladiatoria, proibiti da Onorio nel 404 d.C.; ma gli spettacoli, in particolare le venationes, non cessarono neanche dopo i danni provocati da Genserico del 456 d.C., come attesta il restauro del 530 d.C. noto da un’iscrizione ritrovata nel 1846. Tra la metà del V e il VI sec. d.C. la zona nord occidentale dei sotterranei fu trasformata in oratorio cristiano. Nella piccola “navata” costruita con materiali preesistenti, si notano ancora labili lacerti delle pitture parietali e della volta, la pavimentazione - impreziosita da lastre di marmo - e il suggestivo altare addossato alla nicchia. La rovina del “Colosso” è legata alla fine della millenaria storia di Capua antica. Il saccheggio e l’incendio dei Saraceni nell’841 causarono la traslazione della città. Alla metà del IX sec. d.C., l’anfiteatro divenne rocca difensiva di una città ormai quasi deserta e fu definito Colossum, Berolais, Berolassi, ovvero, Virilasci o Vorlasci. Dall’856 la popolazione si rifugiò nell’ansa del Volturno, sede dell’antica Casilinum, dove sorgerà la “nuova Capua”, mentre la città antica si sfaldò in tre borghi distinti dal nome delle chiese di Sant’Erasmo, San Pietro e Santa Maria Maggiore e, proprio da quest’ultimo, a partire dal XVIII secolo, si svilupperà la città odierna che rimarca con la denominazione di Capua Vetere la propria identità storica. Dichiarato Monumento Nazionale nel 1822 fu aperto al pubblico dal 1913 e, nel 2013, per celebrarne il centenario è stata inaugurata una nuova fase, in linea con le innovative politiche di accoglienza dei pubblici, con un servizio di biglietteria, bookshop e ristorante biologico all’ingresso dell’area archeologica.